MEIS

PERCORSO CONCETTUALE ATTRAVERSO IL MUSEO “Tutte le nostre esperienze sono esperienze di ponti gettati” (Franz Rosenzweig, Il Nuovo pensiero) Molteplici sono gli ingressi al museo e i percorsi possibili. Anche dal suo ingresso principale, le soglie si ramificano, trasmettendo immediatamente un senso di apertura, trasparenza, flessibilità. Tra una pluralità di linee in più direzioni si lascia riconoscere in pianta una stella di David deformata, le cui punte perforano e oltrepassano le mura dell ex-carcere e l’ex-carcere stesso. Il volume resta compresso ed allineato al muro di cinta interno e solo degli spazi porticati diventano il tramite, il ponte, la rottura ad un mondo chiuso, l’apertura. Un invito a trasformarsi per conoscere l’altro, ma anche per conoscere se stessi e conservarsi identici attraverso la storia. Il ricordo della necessaria commistione di identità e alterità: condizione e frutto di qualsiasi esperienza. “Un arameo era mio padre” (Deut. 26, 5), secondo i maestri talmudici, può essere letto anche come “un arameo ci voleva distruggere” (Hagaddah di Pesach): se tenute insieme, le due interpretazioni raccontano anche il presupposto etico-ontologico della storia e della conoscenza. Uno stelo di vetro, conduttore di acqua e di luce, ne diventa il “segno”: sottoforma di scultura all’ingresso del museo, visibile anche dall’esterno, e poi di guglia che sfonda il carcere e lo apre ai giardini dei cedri e dell’arte. Lo stelo è formato da stelle di David. Come un telescopio che rende vicino ciò che è lontano, ma senza annullare le distanze e la molteplicità di costellazioni. “Costellazione dialettica” o “telescopage del passato attraverso il presente” (I Passages di Parigi, N7, a 3), anche nel senso di un incontro-scontro tra generazioni, sono immagini che Walter Benjamin attribuisce alla memoria. “Segno” piuttosto che “simbolo” – termine più pertinente alla tradizione linguistica e concettuale ebraica -. Un promemoria che rimanda ad altro da sé, un significante che allude senza incarnare monumentalmente il senso, uno stimolo a continuare il percorso, oltrepassare confini abituali di linguaggio e di pensiero, per collaborare alla costruzione di nuove mappe di significati. ” Non ti farai scultura alcuna, né immagine…” (Esodo, 20, 3-4) Il divieto di idolatria, pilastro del monoteismo ebraico, del suo stile di pensiero e delle sue forme di vita, proibisce a qualsiasi immagine, parola o concetto, di esaurire il senso possibile e a qualsiasi elemento singolo di sostituirsi all’intero. L’idolo non è l’immagine in quanto tale, ma l’oscuramento o la dimenticanza della relazione con l’altro da sé, la finzione di un’autosufficienza, la costruzione di frontiere rigide. L’idolo coincide con il pregiudizio, con un’idea che ha smesso di interrogarsi sui propri stessi rischi ed errori. Spesso i maestri talmudici si interrogano e discutono se vi sia un principio o un comandamento che possa condensare il senso unitario della Torà, senza arrivare mai a un accordo su tale primato. Il ‘valore’ della Torà assunto di volta in volta come prioritario (il divieto di idolatria, lo studio della Torà, il rispetto del prossimo…) non si erge a dogma del monoteismo, a parzialità privilegiata in cui il divino si manifesta, ma ha il significato di una chiave di lettura. Il Talmud interpreta l’idolatria stessa come un peccato di lettura (Tal. Bab., Berakhot, 12a -13b) che attraversa costantemente la stessa Torà. Molteplici sono dunque le immagini che si incontrano attraverso il museo: il libro, lo stelo, la stella di David, la menorah, l’ulivo, il cedro, la rugiada. Ogni immagine è ‘segno’ di processi dialettici caratteristici dell’ebraismo in generale e, in particolare, della storia e dell’esperienza dell’ebraismo italiano. Esse stesse sono in dialogo l’una con l’altra, e ciascuna con parti di sé, oltre che con gli altri elementi architettonici. L’una lascia vedere l’altra, conduce o addirittura si trasforma nell’altra. Ognuna resta memore della sua storicità (la stella di David, simbolo moderno dell’ebraismo, preso in prestito da altre culture, non dimentica la menorah, prescritta dalla stessa Torà, e anzi la ospita al suo interno sotto forma di ulivo) e si dispone a raccontare altre storie, passate, presenti e future. Nessuna di queste immagini diventa dunque simbolo esclusivo e complessivo né dell’ebraismo, né degli scopi del museo, né dell’idea architettonica generale. Non vi è un blocco unico, monumentale e uniforme, ma una pluralità di edifici, spazi, materiali, forme e segni, al tempo stesso autonomi e correlati, rigidi e flessibili, antichi e moderni, frammentari e unitari, simili e differenti. L’unità del progetto si lascia riconoscere, attraverso richiami tra frammenti molteplici, proprio nella funzione dialettica di collegamento.

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Concorso di progettazione per il museo nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah

2010
Ferrara, Italia

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